Fare il bucato con la liscivia (dal latino lixa = acqua) era quasi un rito per le donne della famiglia. Era un lavoro faticoso, perché nelle case mancava l’acqua ed i vari detersivi non esistevano ancora.
Questo tipo di bucato, in uso fino agli anni del dopoguerra, veniva fatto alcune volte l’anno, seguendo determinate regole.
Nella pentola di rame si faceva bollire l’acqua mista alla cenere di legna, che prima doveva essere passata in un setaccio finissimo. Si preparava quindi l’apposito mastello di legno nel quale si mettevano i panni a strati; su di essi si versava poi l’acqua bollente con la cenere, detergente casalingo naturale chiamato lisciva.
Alcune donne aggiungevano dei ramoscelli di alloro per dare profumo alla biancheria, altre invece mettevano un mazzetto di ortiche che contengono acido caustico e formico, per ottenere migliori risultati.
I panni restavano a bagno per un paio di giorni, poi si risciacquavano nell’acqua della “bealera”.
Per risciacquare le donne sbattevano i panni inginocchiate sopra lo scanno asse di legno con due pioli di sostegno laterali, mentre l’altra parte inclinata veniva infilata dentro la corrente d’acqua della “bealera”.
In tempi di siccita’ bisognava caricare il mastello sulla carriola ed arrivare fino al torrente Casternone.
A volte il bucato veniva fatto contemporaneamente dalle donne di una contrada intera ed i vari mastelli erano poi caricati su un carro trainato da animali. Cosi’ le massaie risparmiavano la fatica di spingere la carriola.
I panni lavati non si stendevano sui balconi, ma su corde sostenute da pali di legno, e tese nell’aia o nel prato vicino.
Quanta stanchezza, altro che lavatrice!